Non c’è progetto senza un racconto. E non c’è racconto senza verità. L’inganno inibisce la lettura del racconto, o ne riduce l’intensità. Il progetto, dunque, deve rivelare l’idea che lo struttura, senza mentire.
Il ferro è il materiale che, per sua natura, più si rivela con sincerità e per questo il prescelto: tutto ciò che subisce nel tempo, nelle fasi della lavorazione, o a seguito dell’uso, si rivela in segni che sembrano cicatrici. E niente ne può cancellare le tracce, a meno di non mutare l’aspetto del ferro stesso.
Il ferro è nero in superficie, ma ha un cuore lucente. Qualunque azione sulla sua superficie ne fa emergere il cuore d’argento, qualunque graffio, incisione, abrasione.
È un materiale povero, eppure rivela un’enorme ricchezza di linguaggi: è nero e austero in origine, liscio e compatto, ma diventa rosso e materico se si ossida, oppure d’argento luminoso se si graffia. Dunque, i difetti e le imperfezioni della superficie rivelano l’anima del materiale, ne diventano il racconto che impreziosisce.
Il ferro viene, dunque, slegato dal consueto ambito industriale, o strutturale, per nobilitarlo e dargli spazio a vista, in un ambito delicato come quello dell’arredo. Raggiungendo il limite estremo di portarlo a tavola.
Il suo peso consistente, che induce ad un’apparente mancanza di praticità, lo rende protagonista, l’ipotetico difetto diventa una forza. La contraddizione che si percepisce nel prendere in mano una tovaglietta e sentirne un peso inconsueto gli dà un nuovo significato, senza togliere funzionalità all’oggetto, anzi dandogli stabilità, solidità.
Photo ©️ Serena Eller